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giovedì 26 gennaio 2017

Lo Sapevate Che: Quel modello americano che arriva da lontano...



“Un Bel Giorno, sulla fine del 1945… (un amico direttore) pensò che io avrei potuto essere un discreto corrispondente da New York. Nessuno in Italia se n’era accorto prima, avevo ormai 63 anni sulle spalle e molta disperazione nel cuore, nessuna ambizione di scrittore, o di miglioratore del genere umano, ma invece sentivo il bisogno di mandare qualche soldo ai miei in Italia, che il cambio irragionevole di quei tempi costringeva a strettezze. Sicché accettai, pur sapendo che per fare il corrispondente sul serio di un giornale ci sarebbero voluti dei mezzi, di cui il giornalismo italiano non disponeva allora”. Comincia così il libro Tutta l’America di Giuseppe Prezzolini. Pubblicato nel 1950, oggi è introvabile, forse anche perché il suo autore è finito nell’oblio. I suoi libri non vengono ristampati. Eppure Prezzolini fu un intellettuale importante, solo occasionalmente giornalista, ma abbastanza da influenzare alcune grandi firme del Novecento: da Indro Montanelli a Enzo Biagi. Prezzolini era stato volontario al fronte nella Prima guerra mondiale, e su quel conflitto scrisse testimonianze memorabili. Ebbe un flirt iniziale col fascismo, ma se ne staccò fino a scegliere un semi-esilio negli Stati Uniti dei quali prese la cittadinanza. Fu un italianista prestigioso alla Columbia University. Nei suoi anni americani visitò in lungo e in largo questo paese, per raccontarlo agli italiani che ne avevano un’immagine stereotipata piena zeppa di luoghi comuni, di pregiudizi grossolani. Rileggere oggi quelle sue cronache è un’esperienza preziosa. Anzitutto, come si capisce dalle righe che ho citato, ci porta indietro a un’era di giornalismo povero nel senso letterale, economico: quello dove siamo tornati, visto che i soldi veri stanno in social media come Facebook o aggregatori di notizie come Google, ma non vengono investiti nella qualità dell’informazione. Poi da quelle pagine ricevo una lezione di umiltà: abbiamo spesso l’impressione di vivere un’epoca eccezionale, senza precedenti, dove tutto ci appare nuovissimo. E invece la storia ha una curiosa tendenza a ripetersi, torna sui suoi passi, “fa la rima a se stessa”, come diceva Mark Twain. Prezzolini scriveva: “Gli Stai Uniti sono oggi per alcuni un incubo, per altri un miraggio, per molti un enigma o un labirinto, per tutti un centro di forza e di vita che attira e che spaventa, del quale nessun popolo potrebbe fare a meno ma che, nello stesso tempo e appunto per questo, suscita apprensione e persino odio”. Cambiate firma e data, può essere stato scritto ieri. Ultima lezione: il “modello americano”, il laboratorio delle novità politiche ed economiche, l’esperimento costante a cui guardiamo con ammirazione o con ripugnanza, è stato di volta in volta delle cose diversissime. Talvolta l’esatto opposto di quello che crediamo di ricordare. Ecco un elenco dei cambiamenti che Prezzolini descrive nell’America di Roosevelt: “L’antico individualismo si è smorzato per obbedire alla tendenza della maggioranza verso la sicurezza sociale e lo Stato paternalistico ed all’orrore del rischio, sconosciuto alle vecchie generazioni americane; lo Stato federale ha cresciuto le funzioni e moltiplicato gli impiegati, è diventato il più grande banchier e il più grande industriale del paese; l’immigrazione è stata ristretta e per alcune razze si può dire cessata; le tasse impediscono la formazione di grandi patrimoni, taglieggiano le ereditò, scoraggiano dal guadagnare troppo”. E’ un’America al tempo stesso socialista e xenofoba, egualitaria ed etnicamente omogenea, quella uscita dalla Seconda guerra mondiale. Quanto è cambiata da allora. In peggio o in meglio, forse in tutt’e due le direzioni. Quanto cambierà ancora? Rendendo effimere le nostre analisi, le nostre paure, le nostre certezze.
Federico Rampini – Opinioni – Donna di Repubblica – 21 gennaio 2017 -

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